Non guardi mai l’orologio! Questo è il rimprovero che il padre dei miei figli, Simone, mi fa continuamente e, vi dirò, ha ragione.
Per chi mi conosce, sa che ho l’ascendente in vergine non a caso: sono perfettina e ho la sindrome della brava bambina. Se c’è una regola, io la rispetto. Odio essere in ritardo, eppure mi capita di esserlo, ahimè! Le mie cose hanno sempre un loro ordine preciso: quando vivevo ancora con i miei, per esempio, e mia sorella prendeva qualcosa di nascosto dall’armadio, immancabilmente me ne accorgevo subito. Giuro! Senza ricorrere a trucchetti stile C.S.I. Semplicemente perché lei, spostava qualcosa in modo quasi impercettibile. Quasi.
Eppure sono anarchica e ribelle anche io. Come? No, piuttosto con cosa: il tempo, appunto.
Non guardare l’orologio è il mio atto di ribellione.
Un’anarchia temporale
iniziata dal giorno in cui ho smesso di lavorare, essendo entrata in maternità
per l’attesa di Mattia. Calcolando che, attualmente, vanto un parto all’anno, in
effetti non metto piede in ufficio e quindi, non guardo l’orologio da un po’ di
tempo.
Tempo. Eccolo di nuovo
lui.
Dovete sapere che mia
professione, come molte altre del resto, è decisamente scandita dalle lancette
dell’orologio. Lavoro in un call center, per cui potete immaginare: il tempo
della chiamata che deve essere di tot minuti, il tempo entro cui gestire un tot
di email, il tempo in cui chiudere un tot di reclami. Il tempo della pausa e
del pranzo. Essendo a sei ore, le mie sono due pause da un quarto d’ora l’una.
Una ogni due ore circa. Si corre e si rincorrono queste lancette all’infinito.
Tic tac tic tac. Quando poi esci da lì, continui a correre: per prendere il
bus, per fare la spesa, per preparare la cena, per mettere in ordine, per
tuffarti nel letto. Stop. Questo prima di diventare mamma e di fermarmi per un
po’ a casa.
All’inizio senza
rendermene conto, dal giorno in cui ho smesso di andare in ufficio, ho
incominciato a fregarmene di correre. O forse, corro ancora, ma a caso: posso
pulire i pavimenti alle otto del mattino, come alle cinque del pomeriggio.
Posso uscire a fare la spesa alle due e rientrare alle sei.
Simone è fuori casa tutto
il giorno e rientra per cena. Fino ad allora, i tempi della giornata li detto
io.
No, non è vero: li dettano
i miei figli e se guardi loro, il loro punto di vista, ecco che il tempo
diventa prezioso e la parola d’ordine “non avere fretta”.
N O
N A V
E R E
F R E
T T A.
Il lusso della nostra era
targata Duemilasedici.
Quante volte mi sono
ritrovata a dire “dai Matty muoviti che dobbiamo andare”, senza avere la
pazienza di aspettare cinque minuti in più, perché potesse scegliere la
macchinina che voleva con sé quel giorno? Quante volte ho sbuffato
insofferente, perché invece che farsi vestire, lui voleva correre e nascondersi
sotto il letto per giocare? Quante volte gli ho fatto accelerare il passo
perché “sennò facciamo tardi”? Troppe. Eppure, anche adesso che sono ancora a
casa in maternità per Amalia, anche adesso che vengo continuamente incolpata di
non guardare l’orologio e nemmeno le previsioni meteo (notoriamente faccio
mille lavatrici quando sono previste forti piogge), anche adesso che credo di
essere anarchica, in realtà continuo a essere schiava del tempo. Lo siamo
tutti, perché la società in cui viviamo ci mette fretta.
Basta guardarci all’interno di un supermercato: due minuti di coda alla cassa e già diamo di testa, sbuffiamo e ci chiediamo a voce alta e un po’ detto tra i denti: “perché non apre l’altra cassa?”. Oppure alla fermata dell’autobus. Stamattina io stessa, guardando gli orari e vedendo che prima di dieci minuti il nostro “36” non sarebbe arrivato, ero insofferente. Dieci minuti persi? Non sia mai! Vado a piedi! Aspetta, però! Il tempo che ci metto ad arrivare con le mie gambe, è lo stesso dell’attesa. Facciamo che mi siedo e mi bacio la testolina di Ami che è qui in fascia abbracciata a me. Dieci minuti alla fine, volano!
Basta guardarci all’interno di un supermercato: due minuti di coda alla cassa e già diamo di testa, sbuffiamo e ci chiediamo a voce alta e un po’ detto tra i denti: “perché non apre l’altra cassa?”. Oppure alla fermata dell’autobus. Stamattina io stessa, guardando gli orari e vedendo che prima di dieci minuti il nostro “36” non sarebbe arrivato, ero insofferente. Dieci minuti persi? Non sia mai! Vado a piedi! Aspetta, però! Il tempo che ci metto ad arrivare con le mie gambe, è lo stesso dell’attesa. Facciamo che mi siedo e mi bacio la testolina di Ami che è qui in fascia abbracciata a me. Dieci minuti alla fine, volano!
Ecco quei momenti di
lucidità che ogni tanto mi prendono, in cui mi chiedo: ma dove corriamo tutti
così di fretta? Fissiamo un punto (ufficio, spesa, appuntamento, scuola,
dottore) e basta non si guarda altro. Se fosse un’immagine tratta da un film, l’effetto sarebbe questo: io ferma in piedi e dietro mille cose che scorrono veloci.
Come faccio a scappare da
tutto questo? Mi salvano i miei figli.
Prendo per mano il mio
piccino, Amalia ancora non cammina, quindi stretta a me in fascia e incomincio
a guardare la vita con i loro occhi, con i loro tempi. E’ così che vedo davvero
il mondo. Per la seconda volta nella mia vita. La prima nella mia infanzia.
Visto come ti frego tempo?
Se volete vi posso dire
quante Peugeot ci sono nella mia via e anche quante Smart, quante Audi e quante
Mini. Posso dirvi quanti alberi, che il cielo stamattina era di un blu intenso,
che nelle strade asfaltate che calpestiamo tutti i giorni, rischiano la vita
milioni di formiche e insetti. Che la
signora del panificio ha cambiato colore di capelli, che i bus sono arancioni e
che la linea prima dei binari è gialla come il limone o la banana. Posso anche
dirvi che rincorrere i piccioni per farli spaventare, è divertentissimo (sì, un
po’ meno per loro lo so). Posso raccontarvi di quanto sia bello guardare
insieme un fiore sbucato per caso in mezzo all’asfalto. Di come sia incredibile
accucciarsi in un angolo per guardare partire la funicolare che da casa ci
porta in centro, Sì, guardarla partire senza salirci sopra, anche se è
mezzogiorno, fa caldo e si ha una fame pazzesca e le brave mamme sarebbero già
a casa a preparare un gustosissimo pranzetto, mentre io, invece, siccome non
guardo mai l’orologio, devo ancora fare la spesa e decidere cosa cucinare.
Tanto faccio presto.
Posso anche farvi notare
che il cartello stradale caduto per terra ieri, oggi era bello dritto in mezzo
al parcheggio, (Mattia riesce sempre a sorprendermi, è un osservatore
attentissimo).
Tutto, qualsiasi cosa con
loro diventa una scoperta incredibile. Alcuni giorni possiamo uscire di casa
alle quattro del pomeriggio e rientrare a casa alle sette di sera, avendo fatto
semplicemente il giro del quartiere.
Perfetto. Il dono
incredibile di poter assaporare la vita. Ancora per qualche mese, poi si
rientra al lavoro.
Eccola la mia parte
anarchica, quella vera, senti come si ribella, come scalpita, come urla no, non
ci sto. E’ abituata bene sino adesso, è stata molto fortunata. Ora che ha
assaporato la libertà, come farla rientrare nei ranghi?
Il tempo inesorabile
scorre, possiamo rincorrerlo quanto vogliamo, lui non ci aspetta.
Possiamo solo fare una
cosa: rallentare un pochino per non perderci nulla delle cose meravigliose che
la vita ci offre. Mischiare un po’ le prospettive: quella di adulto scandita
dalle lancette, tic tac tic tac tic tac e quella di bambino, che va dove gli
pare, che scopre con un “oh”, ciò che di meraviglioso la vita ci offre ogni
giorno sotto i nostri occhi. La semplicità, per esempio.
Guardo l’orologio: devo
andare, tra poco Mattia esce dall’asilo.
Colonna sonora del post: Calcutta - Oroscopo (feat. Takagi & Ketra)
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